7.
Lo studio verde
Il vecchio principe del foro insistette per salire per primo, e Annette per non essere l’ultima a lasciare la cantina dei Barduchon. Si avventurarono così, in fila indiana, su per la scala a chiocciola.
Nel salire Annette contò ventidue gradini... ventidue gradini di legno scricchiolante.
Una porta segreta... Una vecchia scala cigolante... Fabò si sentì catapultato in uno di quei vecchi film in bianco e nero, pieni di mistero.
La scala a chiocciola terminava in una stranissima stanza, alta e stretta. Il pavimento era fatto di pietre annerite dal fumo e le pareti si slanciavano all’insù, nel buio.
— Ci capisci qualcosa? — chiese Annette con un filo di affanno, afferrando il braccio del fratello.
— So solo che mi sembra un sogno... — rispose Fabò sottovoce. — Uno di quelli strani!
L’unica luce in quella stanza proveniva da un passaggio rettangolare, alto meno di un metro, aperto su una delle pareti. E la luce non era l’unica cosa che proveniva da quell’insolito passaggio.
— Che mi venga un colpo se questa non è la voce di... Victor! — esclamò l’avvocato chinandosi.
— Janvier? — rispose una voce dall’altra parte. — È lei, Janvier? Pieghi la schiena e faccia attenzione a passare là sotto. Anzi, le conviene inginocchiarsi, come ho fatto io.
L’avvocato rimase molto perplesso da quelle indicazioni. Guardò il pavimento di pietra nera e sporca e si lisciò il cappotto, come se temesse di sporcarlo. Di certo, temeva di più l’ira di sua moglie che la sorte del cappotto.
Mentre l’avvocato Janvier cercava un modo per salvare il cappotto, i fratelli Gaillard sgattaiolarono agili attraverso il passaggio illuminato.
— Signor Cormolles! — esclamò Fabò riconoscendo subito il postino Victor.
— Lalou! — gli fece eco la voce sorpresa di Annette.
I ragazzi si guardarono intorno, faticando a comprendere ciò che stava accadendo. Si trovavano in una stanza ampia, dal pavimento di legno, con i soffitti alti e almeno tre grandi finestroni con le imposte chiuse. Nel centro della stanza c’era un grande tavolo scuro, con imponenti gambe a zampa di leone. Sul piano di legno erano posati un candelabro d’argento, un tagliacarte e un posacenere di cristallo viola scuro. Alcune poltroncine erano disseminate su un grande tappeto persiano. Le pareti erano ricoperte con una tappezzeria verde salvia. Su quella di destra campeggiavano due pistole incrociate, la testa di un leone e quella di un orso a fauci spalancate. Un’altra, invece, era occupata da una libreria di ebano, con gli scaffali zeppi di libri. Tutti tranne uno, sul quale erano allineati alcune pistole antiche, due pipe di schiuma, un coltello malese dalla lama arcuata e... un teschio umano!
Perlustrando rapidamente lo studio verde con lo sguardo, Fabò si accorse che l’entrata dalla quale era appena passato altro non era che un grande camino di pietra. Le pareti e il soffitto anneriti costituivano la sua grande cappa.
Davanti al camino c’erano due persone: Victor e Lalou, con espressioni del tutto opposte. Lalou aveva un sorriso indecifrabile, mentre Victor sembrava furibondo. Il suo lungo naso sondava l’aria in modo febbrile e le mani, sempre in movimento, stropicciavano un cappello di lana.
— Gaillard junior? — domandò il postino non appena vide sbucare Fabò dal camino. — E la piccola Annette?
Quando fu la volta dell’avvocato Janvier, che uscì gattoni da sotto la cappa, l’irascibile postino non riuscì più a trattenersi. — Ma insomma! — esclamò. — Si può sapere che buffonata è mai questa?
— Bene arrivati! — salutò invece Lalou, incurante dei brontolii del postino.
In risposta ottenne una pacca da Fabò, un sorriso perplesso da Annette e una sospettosa stretta di mano da parte dell’ex migliore avvocato di Parigi.
— Direi che ormai ci siamo quasi tutti — commentò soddisfatto.
I presenti si scambiarono un’occhiata.
— Quasi tutti chi?
— Credo che non dovremo aspettare ancora molto... aggiunse Lalou con fare suadente.
— Accidenti... — disse Annette guardandosi intorno. — Ma in che posto siamo finiti?
Janvier si era avvicinato alle alte finestre e aveva provato a sbirciare attraverso le imposte chiuse. — Direi che siamo al primo piano del palazzo — concluse dopo una brevissima indagine.
— Il piano che è sempre chiuso? — domandò Fabò.
— Impossibile! — esclamò Annette, non riuscendo ancora a credere che il suo palazzo potesse nascondere tanti segreti.
— E, soprattutto... perché? — aggiunse l’avvocato in pensione.
— Sono almeno dieci minuti che me lo sto chiedendo, Janvier — ribatté acido Victor. — E anche se non è la prima volta che mi capita di dover entrare da un camino... di certo non mi aspettavo di farlo qui.
Fabò aveva occhi solo per il contenuto degli scaffali: libri antichi, dai titoli minacciosi e oscuri: Decennale dell’omicidio 1930-1940, I centododici delitti irrisolti della storia di Parigi, Breve storia della ghigliottina, Il delitto in salotto: cronaca degli omicidi in famiglia.
— Si può sapere chi stiamo aspettando ancora? — continuò a brontolare il postino, puntando Lalou con il suo berretto stropicciato.
— Non è difficile immaginarlo... — gli rispose Janvier, tranquillo. — Sbaglio o ci troviamo tutti qui per volontà del figlio della signora Barduchon? —. Senza aspettare una risposta, continuò: — Io, personalmente, sono stato attirato qui da una piccola fetta di torta e da questo biglietto... —. Lo mostrò a tutti.
Victor fu il primo a parlare. — Anche lei, Janvier?
— Così sembra.
— E voi? — domandò il postino ai fratelli Gaillard.
— Noi non abbiamo ricevuto nessuna fetta di torta — ammise Annette, un po’ seccata da quel dettaglio. — E neppure un biglietto, ma...
Ponfete! fece improvvisamente un oggetto ruzzolando sul tappeto.
Il teschio ospitato nella libreria era appena schizzato via dalle mani di Fabò.
Un piccolo sussulto scosse la compagnia riunita nello studio verde.
— Scusate — disse il ragazzo.
— Dovevamo parlare con il figlio della signora Barduchon di una questione della massima importanza — continuò Annette.
— E possiamo sapere di cosa si tratta? — chiese Victor seccamente.
— Dell’Enigma del Mese! — rivelò la ragazza.
— L’Enigma del Mese di King Ellerton? — domandò Janvier.
— L’ultimo? Quello della carrozza nella brughiera? — aggiunse il postino.
— Esatto! — confermò Fabò, constatando con piacere che tutti i presenti erano dei lettori del grande King Ellerton.
— E tu, invece, Lalou? — domandò Janvier al ragazzo di colore.
— Era qui prima che arrivassi — disse Victor, sospettoso.
Annette e Fabò si scambiarono un’occhiata: la faccenda di Deloffre era completamente svanita dai loro pensieri, sostituita dal fascino e dal mistero del luogo in cui si trovavano. Sembrava che fossero gli unici ad accorgersi dei vari oggetti che arredavano la stanza e che parevano usciti da una macchina del tempo. Su un tavolino in ombra c’era un microscopio dorato, dalla parte opposta uno schedario con le lettere dipinte su placchette di porcellana bianca; a una parete erano appesi i disegni di diversi volti umani; dei numeri indicavano la lunghezza dei nasi e la sporgenza degli zigomi e su ognuno c’era una scritta che segnalava la loro attitudine: criminale-assassino, fobico-ossessivo oppure violento-sanguinario.
— Mi trovo qui per via di un... lavoro che ho fatto con il figlio della signora Barduchon — ammise il ragazzo.
— Lavoro?
— È una vecchia storia, fatta di notti trascorse al computer... non credo che vi interessi più di tanto.
— Ti do ragione per quanto riguarda il computer, ma poiché sono ormai le nove e dieci e non abbiamo niente di meglio di fare... — disse l’avvocato — forse potresti raccontarcela.
— Ecco... è una cosa che ha a che fare con il luogo in cui ci troviamo. Ma... sinceramente, non credo di potervene parlare.
— Cosa vuol dire? — chiese Annette.
In quel preciso istante, in un angolo in ombra dello studio verde accadde qualcosa.
Una porta si aprì.
— Signore e signori... — esordì la voce del figlio della signora Barduchon. — Lalou intende dire che è meglio che ve lo spieghi io.
Il figlio della signora Barduchon aveva con sé un vassoio con una teiera e sette tazze a fiori. Sfoggiava un completo impeccabile con tanto di panciotto e orologio da taschino. Dietro di lui procedeva la madre con una torta fumante. La comparsa dei due e il profumo di vaniglia che si sprigionò rapidamente nell’aria ebbero il potere di rasserenare gli animi di tutti. Teiera, tazze e torta finirono su un tavolino e vennero rapidamente spartite, mentre le domande si affollavano l’una sull’altra.
— Barduchon... ma si può sapere...?
— Perché convocarci qui? E in questo modo, poi?
— Che razza di posto è mai questo?
— È l’appartamento del primo piano, vero?
— Si può sapere cosa ci sta nascondendo?
— Signora, è un piacere vederla...
— Che profumino delizioso...
— Signori! — esclamò il figlio della signor Barduchon quando ebbe salutato tutti. — Credo di dovervi delle spiegazioni!
— In effetti...
— Alla buon’ora!
L’uomo con lo sguardo da eterno fanciullo mise le mani avanti a sé e cercò di ottenere silenzio. — Una cosa per volta! Una cosa per volta! Mamma, se vuoi procedere...
La signora Barduchon estrasse dal grembiule una mappa del palazzo di vicolo Voltaire e la distese sul tavolo. Gli inquilini presenti non impiegarono molto a riconoscere i loro appartamenti. L’intero primo piano del palazzo era evidenziato in verde e siglato con il nome “Darbon”.
— Tutto inizia da questa vecchia mappa del palazzo... — spiegò il figlio della signora Barduchon. — E dal mio incarico di amministratore del condominio. Come sapete, il primo piano è sempre stato, a memoria di chiunque, chiuso. E i suoi proprietari piuttosto misteriosi. Tale mistero è rimasto inalterato fino all’anno scorso, quando il sottoscritto ha dovuto chiedere l’autorizzazione per ristrutturare la mansarda dell’ultimo piano perché vi si sistemasse la famiglia Kaborè.
L’avvocato e Lalou annuirono.
— Mi procurai questa mappa al catasto parigino e vidi l’indicazione del proprietario: Gustave Darbon. Vi prego di notare che la mappa risale al 1899.
— Non guardate me — si affrettò a scherzare Janvier. — Ho barba e baffi bianchi, ma non significa che ci fossi già.
Il figlio della signora Barduchon sorrise. — In quell’occasione, quando mostrai la mappa catastale a Lalou, ci facemmo entrambi la stessa domanda. Chi è Darbon? E, data la nostra attitudine per le indagini, ci siamo messi a indagare.
— E cosa avete scoperto, di grazia? — sbuffò Victor, che non vedeva l’ora che quella storia arrivasse a una conclusione.
— Darbon è il più famoso detective che Parigi abbia mai avuto — rispose il figlio della signora Barduchon. — Il più famoso dopo Maigret, ovviamente. Solo che Maigret è un personaggio inventato. Mentre Darbon, come potete vedere, usava questa stanza come suo studio personale!
Un lungo brivido percorse la schiena dei due fratelli Gaillard, che si strinsero l’una all’altro.